L’assistenza ai familiari:
la Cassazione ha stabilito che chi non fa vita
sociale per dedicarsi ad un parente malato e/o invalido che sia stato
vittima di un sinistro, ha diritto ad ottenere il relativo risarcimento.
È di recente intervenuta
la Cassazione (ordinanza n. 28168/2019) per affermare che, i parenti
prossimi di una persona vittima di un incidente che, dopo il sinistro, è rimasto
in stato vegetativo per anni per poi decedere a causa delle lesioni patite, oltre
al risarcimento per morte del congiunto, hanno diritto ad ottenere il
risarcimento dei danni per “privazione della vita sociale”.
Ai prossimi congiunti
vanno, quindi, riconosciuti sia i danni non patrimoniali per la perdita del
proprio caro, sia quelli subiti in conseguenza dell’impossibilità di condurre
una normale vita sociale e relazionale per tutto il periodo in cui
hanno prestato assistenza al familiare malato e/o invalido.
Nel
caso di specie, il sig. B.G. era stato investito da un
veicolo condotto dalla Sig.ra A.C. e, a causa di ciò, aveva riportato
gravi lesioni che lo avevano ridotto dapprima in uno stato vegetativo
per tre anni per poi condurlo alla morte.
Per
tale ragione i suoi congiunti avevano richiesto la condanna di A.C. al
risarcimento di tutti i danni dagli stessi patiti.
Il Giudice di prime cure accoglieva la domanda, attribuendo tuttavia alle parti un concorso di colpa paritario. La sentenza veniva poi appellata ed il Giudice di secondo grado si pronunciava ritenendo corretta la liquidazione del danno non patrimoniale operata dal Tribunale in favore degli eredi del danneggiato, in quanto aveva tenuto conto sia della liquidazione del danno biologico patito, sia del tempo intercorso tra le lesioni e la morte.
Non soddisfatti dell’esito del processo di appello, gli eredi fecero ricorso alla Suprema Corte di legittimità lamentando che il Giudice di primo grado, nel liquidare il danno da essi patito direttamente e a causa della morte del loro congiunto si fosse limitato ad applicare i minimi previsti dalle tabelle di Milano senza tenere conto del fatto che tutti loro, rinunciando forzosamente a qualsiasi attività di tipo ricreativo e relazionale, avevano prestato assistenza per tre anni consecutivi al loro caro, diventato totalmente incapace d’intendere e di volere e, quindi, completamente invalido.
La sesta sezione civile della Corte di Cassazione,
con ordinanza n. 28168/2019 del 13/06/2019, ha ritenuto fondato il predetto motivo
di impugnazione, precisando che nella quantificazione del danno
non patrimoniale sofferto dai congiunti il giudice deve: a) tenere conto
delle conseguenze che la morte di un congiunto causa nelle persone di comune
sentire che vivono una simile esperienza; b) liquidare tale voce di danno con
un criterio standard per garantire la parità di trattamento a parità di danno;
c) accertare se sussistono delle circostanze particolari che rendono il
pregiudizio superiore rispetto ad altri casi. Nel valutare questo tipo di danno
il giudice deve tenere conto delle “specifiche ricadute che
l’evento doloroso della morte – della vittima primaria – ha determinato nella
vita di ciascuno dei suoi congiunti o conviventi” e deve
darne conto in una motivazione analitica e completa.
Poiché la Corte d’Appello aveva ritenuto provato il
fatto che i ricorrenti avessero effettivamente assistito il parente per tre
anni consecutivi dopo il sinistro ma, al contrario, non aveva preso in
considerazione la possibilità di aumentare il risarcimento loro spettante, gli
Ermellini sono intervenuti precisando che se un soggetto, dopo tre anni di coma, muore,
i parenti subiscono, in realtà, due tipi di danno: quello causato dal vedere il
proprio caro sofferente e quello del lutto.
Tutto quanto sopra, la Suprema Corte ha ritenuto di
cassare con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, affermando che
quest’ultima, nella liquidazione del danno, dovrà attenersi al principio di
diritto secondo cui: “il pregiudizio non patrimoniale patito dai
prossimi congiunti di persona gravemente ferita, e consistito tanto
nell’apprensione per le sorti del proprio caro, quanto nelle forzose rinunce
indotte dalla necessità di prestare diuturna e prolungata assistenza alla
vittima, è un danno identico per natura, ma diverso per oggetto, dal
pregiudizio patito dalle medesime persone, una volta che il soggetto ferito sia
venuto a mancare. Ne consegue che se una persona venga dapprima ferita in
conseguenza di un fatto illecito, ed in seguito muoia a causa delle lesioni,
nella stima del danno patito jure proprio dai suoi familiari il
giudice deve tenere conto sia del dolore causato dalla morte, sia dalle
apprensioni, dalle sofferenze e dalle rinunce patite dai suoi
familiari per tutto il tempo in cui la vittima primaria fu invalida e
venne da loro assistita”.